Ricettario

ZUPPA DI CARDONE DI BENEVENTO

LA STORIA: Non c’è Natale a Benevento senza un buon piatto di cardone fumante a tavola. Le tradizioni sono tradizioni ed in città nessuna famiglia rinuncia a questa zuppa. Per chi non lo sapesse, il cardone è una pianta che somiglia molto al carciofo ma presenta foglie più grosse e tenere. Si pianta a febbraio, si interra nel periodo autunnale e si lega in un ciuffo per far restare più bianche e morbide le foglie centrali: nel periodo natalizio, come detto, è presente in tutte le tavole dei beneventani. La sua preparazione è lunga e ci vuole un intero giorno per “pulire” i cardi dal sapore amaro: un procedimento che si tramanda di generazione in generazione con tutta la famiglia a “prendersi cura” dei cardi il giorno precedente alla festa.

COSA SERVE: (ingredienti per 4 persone): Una pianta di cardone già pulita, un pollo o un cappone ruspante, carne macinata di vitello, uova, sale, prezzemolo, pecorino locale grattugiato.

PREPARAZIONE: Dopo aver pulito e lessato i cardi, preparate il brodo con il pollo ruspante, il sedano, la cipolla, il sale e i pomodori. Una volta eliminate le verdure dal brodo, estrarre i pezzi di pollo e sfilettarli. Preparare piccole polpettine con uova, prezzemolo, pecorino locale, pangrattato e aglio tritato: subito dopo occorre unire le polpettine al brodo lasciato bollire sul fuoco. Successivamente aggiungere il cardone usando la parte interna della pianta, quella tenera. Continuare a cuocere la zuppa e, a cottura quasi ultimata, unire le uova battute con il sale, il prezzemolo ed il pecorino grattugiato. Far riposare la zuppa e servirla calda con crostini di pane.

LA ‘MBATANELLA

LA STORIA: Una ricetta povera, il piatto di tutti i giorni. Chi se lo poteva permettere, la domenica, preparava ben altro. La “mbanatella” si chiama così perchè il pentolone di verdure di stagione, patate e fagioli (rigorosamente quelli tipici di San Lupo, della “Regina”) viene “impanato”, e cioè rinforzato con una pagnotta di farina di mais impastata con acqua e poi cotta su pietra “morta” che i contadini reperivano in campagna o lungo i greti dei fiumi. Una ricetta lunga e laboriosa anche perchè le verdure, diverse a seconda della stagione, hanno bisogno di una lenta cottura e la pagnotta fritta deve ottenere una consistenza vellutata. Un piatto locale perchè le erbe spontanee cucinate vengono dalle campagne di S.Lupo e San Lorenzo Maggiore, l’olio extravergine è quello di San Lupo ed i fagioli della “Regina”, così chiamati perchè sono dedicati a Maria Teresa, moglie di Ferdinando II di Borbone, che dopo averli assaggiati lì gradì molto, sono un prodotto unico e tipico di questa terra.

COSA SERVE: 1 kg di cardilli, 1 kg di broccoli di rapa, 1 kg di farina di mais, 300 g di Fagioli della Regina di San Lupo, sei patate, peperoncino, olio extravergine di oliva di San Lupo, aglio, sale.

PREPARAZIONE: Tagliate le patate a dadini e farle lessare assieme alle verdure per circa 15/20 minuti. Impastare la farina a parte con l’aggiunta di acqua tiepida e sale, stendere l’impasto e cuocerlo su una “pietra morta” scaldata accanto al fuoco (in alternativa friggere l’impasto su una padella con olio locale). Preparare in un’altra padella un spicchio di aglio da far imbiondire assieme a pezzetti di peperoncino all’olio, aggiungete la verdura, i fagioli lessi e la pizza di mais che deve essere tagliata a pezzi piccoli. Rimescolate tutto facendo molta attenzione a non lasciare i pezzi di masi troppo grossi e servire il piatto ancora caldo.

CIAMBOTTO DEL FORTORE

LA STORIA: Più che un piatto, il ciambotto” è una vera e propria usanza della cultura contadin del Sannio, a base di ortaggi locali. Resta ancora un piatto tipico del Fortore: gli abitanti del posto conservavano in luoghi freschi e asciutti i barattoli con la “ciambutell” all’interno. Il metodo delle “conserve” ha numerose varianti da paese in paese ed ancora oggi è molto usato nell’entroterra campano. Secondo l’antica usanza, il prodotto, composto da pomodoro tagliato a “pacchetelle”, peperoni, basilico e aglio, viene preparato per poi essere conservato in barattoli o boccacci di vetro che vengono messi a bollire in acqua per circa un’ora. Ecco perchè il ciambotto ha rappresentato e, ancora oggi, rappresenta, una vera e propria provvista per i mesi invernali.

COSA SERVE: Pomodori tagliati a “pacchetelle” (cioè lungo le quattro coste), peperoni tondi verdi freschi, salsa di pomodori, aglio, basilico.

LA PREPARAZIONE: Affettare i peperoni verdi e stenderli al sole per farli asciugare per poi “spolverarli” con del sale. Lavare i pomodori, mischiarli con parte di pomodori maturi e preparare la salsa, far cuocere il tutto e, dopo averli scolati, passare la salsa. Tagliare i pomodori a “pacchetelle” e togliere i peperoni dal sole. Inserire tutti gli ingredienti nei barattoli di vetro seguendo questo criterio: inserire alla base la salsa, poi i peperoni e i pomodori tagliati e qualche foglia di basilico. Ripetere l’operazione fino al riempimento del barattolo di vetro. Chi preferisce un sapore più “forte” può sostituire i peperoni verdi con quelli piccanti. Una volta chiusi, i barattoli si mettono a bollire per circa un’ora: in questo modo avviene la sterilizzazione sottovuoto del prodotto. Dopo 24 ore si tolgono dal recipiente di bollitura e si conservano in un luogo fresco ed asciutto. La “ciambottella” diventa così un ottimo condimento per qualsiasi tipo di pasta: in Irpinia è molto usato l’abbinamento della ciambottella con i cavatelli.

SCARPARIELLO BENEVENTANO

LA STORIA: Una ricetta sannita antica e molto popolare nel beneventano e nel suo hinterland. Ci sono tante versioni sulla provenienza del piatto. Secondo la tradizione più accreditata questa ricetta si preparava con gli avanzi che si avevano in casa, in particolar modo formaggi, dopo i giorni di festa (il lunedì era il giorno di riposo dello “scarparo”, ecco perchè il piatto si chiama così). Tutto quello che c’era da cucinare veniva consumato con l’aggiunta del sugo avanzato la domenica.

COSA SERVE: Pasta lunga fatta in casa (una sorta di spaghetto alla chitarra), pomodorini freschi locali, olio extravergine di oliva sannita, sale, aglio, basilico fresco, un pizzico di peperoncino e formaggio pecorino locale grattugiato.

LA PREPARAZIONE: Mettere a bollire la pasta in una pentola e “tirarla fuori” al dente. Nel frattempo fate soffriggere con molta attenzione in una padella l’aglio e l’olio e, subito dopo, aggiungete i pomodorini freschi (è molto importante schiacciarli prima di metterli in padella) facendoli cuocere per qualche minuto e aggiungete il sale. Nel frattempo, quando la pasta è pronta, passatela nella padella con il sugo usando anche l’acqua di cottura tenendo sempre la fiamma molto bassa. Aggiungere il pecorino locale grattugiato e girate ripetutamente la pasta per mantecare il prodotto. Inserire il basilico fresco e un pò di peperoncino e impiattare.

ZUPPA DI CASTAGNE E FAFIOLI

LA STORIA: Tipico piatto invernale legato alla cultura contadina sannita. Castagne e fagioli si trovano in abbondanza su tutto il territorio e, nei mesi freddi, questa pietanza veniva proposta con una certa regolarità. Si tratta di una ricetta che ha bisogno di una lunghissima lavorazione per permettere ai due amidi di fondersi nel migliore dei modi. Nel Sannio c’è un’antichissima tradizione di questa ricetta, tramandata da generazione in generazione, nel territorio di Cerreto Sannita, grazie alla presenza del prezioso “fagiolo cerato”, una cultivar antica.

COSA SERVE: (Ingredienti per 4 persone) 200 g di castagne secche locali, 300 g di fagioli (usare il “cerato” cerretese se possibile), tre foglie di alloro, aglio, peperoncino, olio di Ortice a crudo, mezzo litro di acqua.

LA PREPARAZIONE: La tradizione richiede l’utilizzo di una pignata di coccio cucinata a fuoco lento sul camino per la cottura di castagne e fagioli con aggiunta di acqua ed una foglia di alloro, ma se si vuole “trasgredire” la ricetta tradizionale, usate una pentola a pressione ed in cinque ore la cottura è terminata. I fagioli devono essere messi a bagno, per una notte, e vanno fatti cuocere unitamente alla foglia di alloro. La zuppa va “seguita” di tanto in tanto e non deve risultare eccessivamente brodosa. Una volta impiattata va servita con pane casereccio leggermente tostato ed un filo di olio a crudo.

CARRATI DI PIETRAROJA AL RAGU, PECORINO E NOCI

LA STORIA: Carrati, ovvero la “pasta del buon auspicio”. Le donne di Pietraroja preparavano la pasta quanto più lunga possibile, con il chiaro intento di emulare una spiga di grano: più era lungo ogni “carrato”, più cresceva l’auspicio di una generosa raccolta nei campi. L’etimologia della parola è legata al tipo di attrezzo utilizzato per tagliare la pasta, il “carraturo”: si tratta di una serie di fili di acciaio tenuti tesi da un telaio di legno con al di sotto un recipiente per accogliere la pasta. Le striscie di pasta sfoglia, premute con l’aiuto di un mattarello, venivano così tagliate in strisce sottili. A Pietraroja però, la presenza di un “carraturo” non era sempre garantita, ecco perchè le donne si adoperavano per preparare la pasta in un altro modo: ogni sfoglia di pasta veniva tagliata per ricavarne dei pezzetti larghi non oltre i quattro centrimetri. Una volta schiacciata a mano e “carriata” (arrotolata) con l’aiuto di un bastoncino di ferro, la pasta era pronta per essere bollita.

COSA SERVE: (Ingredienti per sei persone) 1 kg di farina, due bicchieri di acqua e due uova per la preparazione dei “carrati”. Carne di pecora sgrassata, olio di oliva locale, pomodoro e sale per la preparazione del ragù. Noci locali, formaggio pecorino del Matese.

LA PREPARAZIONE: Preparare il ragù utilizzando la carne sgrassata di pecora. Una volta arrotolata si mette a bollire per oltre due ore con l’aggiunta di olio d’oliva locale, sale e pomodoro, a fuoco lento. Prendete la pasta fatta a mano (preparata con acqua, farina e uova) e, dopo aver dato forma ai carrati, calatela in una pentola (acqua portata a bollitura con il sale) e, dopo aver ricavato una cottura al dente, scolatela. Subito dopo usate una zuppiera capiente e preparate una base con il ragù di pecora, aggiungete un primo strato di carrati con formaggio pecorino grattugiato e con noci tritate e mescolate il tutto ripetendo l’operazione con il resto dei carrati.  Impiattare e servire.

SALSICCIA R’POC

LA STORIA: Una ricetta tipica di diversi comuni sanniti in particolare Cerreto Sannita, Cusano Mutri, Pietraroja e Guardia Sanframondi, la “salsiccia r’poc” è stata inserita nel luglio 2014 nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali della Campania. Si tratta di un piatto tipico legato alla tradizione contadina che veniva solitamente gustato nel periodo invernale, dopo l’uccisione del maiale a gennaio. Secondo la vecchia tradizione locale, il prodotto veniva ricavato dai tagli di scarto della preparazione della salsiccia con l’aggiunta di frattaglia condita con sale, peperoncino, finocchietto selvatico, aglio e pepe. Il prodotto veniva poi insaccato e fatto appassire per qualche giorno per poi essere cotto sotto la cenere. Oggi è possibile assaggiare questa gustosa pietanza, seguendo il processo dell’antica ricetta, presso l’azienda agricola Masella a Cerreto Sannita.

COSA SERVE: (ingredienti per quattro persone) 400 g di salsiccia “pezzente” locale, 4 foglie di minestra di campagna.

LA PREPARAZIONE: Dopo aver fatto appassire l’insaccato per 4-5 giorni e dopo aver fatto cuocere sotto la cenere, togliere il pezzo di carne, tagliarlo e avvolgerlo nel cartoccio di minestra con l’ausilio della carta da forno. Per una cottura della salsiccia r’poc tradizionale, occorre preparare la brace incandescente assicurandosi di avere cenere calda nello spazio al centro del camino. Posizionare la salsiccia tra carbonella e cenere e far cuocere il pezzo di carne per dieci minuti.

CARNE E PAPACCELLE

LA STORIA: Il  Sannio ha, da sempre, una lunga tradizione gastronomica legata alla carne di maiale. Il piatto che più accumuna tutta la provincia è, forse, un mix tra maiale, peperoni e patate. A Benevento viene chiamata “beneventana” o “padellaccia”, nei borghi il nome varia molto più frequentemente: basta spostarsi di qualche chilometro per avere nomi diversi e variazioni al “trittico” di ingredienti.. Si tratta di un piatto invernale, legato al territorio, che si prepara con una parte del collo del maiale (la “scannatura”).

COSA SERVE: (Ingredienti per quattro persone) 400 g di carne di maiale, otto “pappacelle” sotto’aceto, aglio, olio extravergine locale, sale.

LA PREPARAZIONE: Pulire le “pappacelle”, tagliare a pezzetti e soffriggerle (per quattro minuti) con uno spicchio di aglio e l’olio d’oliva locale. Far riposare in un piatto una volta portare a cottura e utilizzare per il maiale tagliato a bocconcini, la stessa padella con l’olio usato per preparare le “pappacelle”. Far cuocere il maiale per sei o sette minuti e, una volta rosolata la carne, si aggiungono nuovamente le “pappacelle” nella padella che viene coperta per qualche minuto. Mantecare a fiamma bassa la carne con i peperoni e, dopo dieci minuti, aggiungere sale a piacere ed impiattare.

BACCALA’ ALLA BENEVENTNA

LA STORIA: Può suonare strano ma è proprio così: il Sannio vanta una radicata tradizione culinaria legata al baccalà. Niente di così bizzarro in fondo: la “passione” per il baccalà in pieno entroterra campano ha origini antichissime e risale al periodo natalizio. I contadini non potevano permettersi l’acquisto di pesce per via del costo eccessivo dello stesso ecco perchè si decideva di fare una sorta di “investimento” solo ed esclusivamente nei periodi di festa. Nel Sannio  la tradizione del baccalà è radicata sopratutto a Benevento: da quello “arreganato” alla “cannaruta”, la ricetta più comune è quella alla “beneventana” con origano, olive e capperi.

COSA SERVE:  (Baccalà alla beneventana) 600 g baccalà dissalato, 300 g di pomodorini freschi, olio extravergine d’oliva sannita, capperi, origano, prezzemolo tritato, olive, sale, pepe.

LA PREPARAZIONE: (Tagliare il pesce a pezzi, infarinatelo e friggetelo in olio bollente. In una teglia fate soffriggere aglio e olio locale, aggiungendo il pomodoro, il prezzemolo, olive locali snocciolate e capperi. Fate cuocere il tutto per 15-20 minuti e aggiungete il baccalà fritto ricoprendolo della salsa. Stufate il baccalà in forno per una decina di minuti e, prima di impiattare, aggiungete altro prezzemolo.

“LO LICCO” di San Giorgio La Molara

LA STORIA: A sfatare il luogo comune che la polenta rappresenti una pietanza esclusiva del nord Italia, ci pensa “lo licco” di San Giorgio la Molara. In tantissimi borghi montani dell’entroterra campano, cosi come in Basilicata, in alcune zone della Puglia e in Abruzzo, la polenta e’ sempre stato un piatto comune ed umile, utile per riscaldarsi nelle fredde giornate di montagna. In questo borgo del Sannio, la polenta è un piatto tipico a tutti gli effetti, per via della materia prima che la origina: la farina di granturco di qualita’ “Quarantina”. Questa tipologia è ottenuta da un seme autoctono, macinata con un mulino a pietra

INGREDIENTI: 1 kg di farina Quarantina, tre litri d’acqua, salsiccia locale, pecorino grattugiato locale, peperoncino piccante

PREPARAZIONE: Portare ad ebollizione l’acqua in una pentola di rame, aggiungere la farina e mescolare piano evitando di creare grumi, per circa un’ora, girando continuamente e aggiungendo, a poco a poco, altra farina. Quando lo “licco” avra’ raggiunto la compattezza desiderata, conditelo con il sugo rosso della salsiccia, oppure in bianco. Lo licco puo’ anche essere cucinato “caso e rasso” disponendo a strati prima il sugo e poi la polenta. Una variante dolce e’ versare la polenta in un piatto, fare un incavo e versarci il vincotto. Altra variante e’ lo “licco nfocato” con la polenta fredda del giorno prima: si lascia tostare in pane, si aggiungono patate scaldate e schiacciate e si amalgamano con la polenta.

FIORONI DI MORCONE

COSA SERVE: (ingredienti per sei porzioni) 400 g di farina bianca; 50 g di strutto; 4 uova; vino bianco; 200 g di salsiccia stagionata locale; 50 g di formaggio pecorino locale grattugiato; 100 g di provola locale fresca, sale. Preparazione 55 minuti – cottura 25 minuti.

PREPARAZIONE: Setacciate sulla spianatoia la farina con un pizzico di sale, unitevi lo strutto, due uova, il vino bianco e poca acqua tiepida, in quantità necessaria a formare una pasta liscia ed omogenea. Stendetela con il matterello e ritagliate tanti dischetti di 10 centimentri di diametro. In una terrina sgusciate due uova, unitevi la salsiccia a pezzetti, il pecorino locale grattuggiato e la provola fresca (eliminate la crosta) e tagliata a dadini. Mescolate accuratamente il tutto con una forchetta fino ad ottenere un impasto omogeneo. Stendete il ripieno così ottenuto su un disco di pasta, copritelo con un altro disco premendo leggermente i bordi con i polpastrelli per sigillarli. Seguendo questa modalità preparate tanti “fioroni” (i dischetti farciti) e passata in forno caldo a 180 gradi centigradi su una placca coperta di carta da forno per 20-25 minuti (o fino a quando risulteranno dorati).

LA DISFIDA DELLA LASAGNA

E’ uno dei piatti più prelibati e ricercati della tradizione campana. La lasagna è un piatto tipico napoletano? Non lo sappiamo ma una cosa è certa: a Benevento e nel Sannio, la lasagna presente delle piccole, ma significative differenze. Come prima cosa, il ragù della “beneventana” è rigorosamente di maiale, c’è poi da sottolineare che a Napoli viene adoperata la besciamella mentre nel Sannio ci si affida alla ricotta locale. Dulcis in fundo, le uova sode vengono fatte a pezzetti o sbriciolate e vengono mischiate con le polpettine. Sempre nel Sannio c’è anche una terza versione, quella preparata a Castelvenere, comunemente chiamata “Scarpella”: è bianca e, nella preparazione, vengono usati rigorosamente prodotti locali.

IL LIQUORE STREGA

Ogni città ha un suo simbolo, ogni territorio la sua icona. Benevento ha lo “Strega”, un liquore rinomato e conosciuto ovunque che lega indissolubilmente il suo nome a quella che è una delle leggende più affascinanti del Sud Italia, quella legata, appunto alla leggenda delle Streghe di Benevento. L’azienda, che nel lontano 1860, ha inventato e scommesso su questo liquore, è la ditta Alberti. Chi giunge in città servendosi del treno, non potrà certo perdersi una visita allo stabilimento che si trova a pochi metri dalla piazza della stazione centrale. Lo “Strega”, è prodotto ancora oggi secondo un’antica, e segretissima, ricetta: una miscela ottenuta da ben 76 erbe pregiate, molte di queste locali, e tra queste c’è lo zafferano che conferisce al liquore la sua caratteristica colorazione gialla. Altra particolarità la troviamo nella conservazione del prodotto che viene stagionato per un lungo periodo in tini di quercia, al fine di ottenere una simbiosi perfetta di erbe ed aromi.

Per info su visita allo stabilimento e punto vendita prodotti: Piazza V.Colonna, Benevento 082454325

I TARALLI DI SAN LORENZELLO E CERRETO SANNITA

Un prodotto semplice, tradizionale e buonissimo. Il tarallo di San Lorenzello e Cerreto Sannita è preparato secondo una ricetta tradizionale. Pochi ingredienti compongono questa prelibatezza: lievito di birra, sale, farina, semi di finocchio ed olio di oliva locale. La farina viene lavorata con il lievito sciolto in acqua tiepida e sale fino a diventare elastica e, successivamente, vengono inseriti i semi di finocchio ed il pepe. Il tarallo “intrecciato” viene fatto lievitare in acqua bollente, tirato subito dopo fuori e messo a cuocere in forno su una placca oleata.

IL PROSICUTTO DI PIETRAROJA

Stagionato nei sottotetti delle abitazioni in modo da ottenere una ventilazione naturale, il prosiciutto di Pietraroja è una prelibatezza del territorio sannita. Questo prosciutto “di montagna” dal sapore intenso segue una lavorazione tipica che inizia con la filatura a mano del coscio che, successivamente, passa alla fase di salatura che dura due settimane: si tratta di una fase molto delicata e decisiva dove il prosciutto viene ripetutamente rigirato in un recipiente di legno forato. Passata la fase della salatura, i prosciutti vengono pressati per cinque giorni in un torchio di legno, speziati con l’aggiunta di pepe nero e peperoncino e poi destinati alla fase di stagionatura.

CECE NERO DEL FORTORE

Una produzione di legumi radicata nella Valle del Fortore, nei territori di Castelfranco in Miscano, San Giorgio La Molara e Molinara. Il cece nero fortorino è totalmente biologico e libero da qualsiasi tipo di trattamento. Si tratta di un legume molto raro, coltivato su ridotte estensioni di terreno e gustoso, facilmente riconoscibile perché si presenta con la sua caratteristica buccia nera e l’interno di colore giallo. Questo tipo di cece presenta un sapore più dolce rispetto a quello comune. La pianta viene coltivata a 600 metri di altezza , il cece viene raccolto in agosto e, successivamente, asciugato al sole. Subito dopo viene conservato in sacchi di juta in posti bui e asciutti.

LA PATATA INTERRATA DEL TABURNO

Una tecnica antichissima e abituale, usata dai contadini locali in inverno: le patate venivano interrate per poi essere “ripescate” quando si doveva fare i conti con la scarsità di alimenti. Le patate, almeno tre quintali, vengono adagiate in buche profonde poco più di un metro, in prossimità dei cigli dove scorre l’acqua sotterranea. Alla base della buca vengono adagiate foglie di felce, subito dopo le patate, poi un altro strato di foglie di felce ed infine il terreno per ricoprire la buca. L’area di produzione è il Taburno. La patata interrata è presente in numerosissime ricette locali. Su questo prodotto c’è l’interessamento del progetto “Terra Madre” di Slow Food.

IL CACIOCAVALLO IMPICCATO

In Irpinia e nel Sannio c’è una strana usanza di mangiare il caciocavallo. Viene impiccato. Niente di sconvolgente o macabro, per carità! Ma è sicuramente un modo originale di gustare questo formaggio, molto comune nei due territori e ricavato dalle vacche podoliche che si muovono indisturbate tra i prati sanniti ed irpini e vengono munte alla maniera tradizionale. Ma torniamo all’impiccato e spieghiamo il procedimento: il caciocavallo viene letteralmente sospeso tra cielo e brace, viene retto da un filo di ferro o da una catena e ciondola a destra e sinistra mentre il calore della brace scioglie la parte bassa e inizia a gocciolare. Il “sacrificio” del caciocavallo è compiuto: con una lama ben affilata viene recisa la parte morbida, alla base del pezzo di formaggio, e viene adagiata su una fetta di pane abbrustolita sulla brace. Tutto qui? Certo che no! Si può insaporire ulteriormente il caciocavallo aggiungendo una spolverata di tartufo, oppure dei funghi, oppure una fetta di prosciutto. Provare per credere.

LA “CUPETA”

Miele, albume d’uovo, nocciole o mandorle: il tutto almagamato e cotto a bagnomaria. Sono questi gli ingredienti che compongono la “cupeta”, che possiamo definire il progenitore del torrone. Una tradizione antichissima, per molti risalente addirittura ai Sanniti, la “cupeta” viene citata dagli autori della latinità classica, come Tito Livio o Marziale: quest’ultimo la definisce, in un suo scritto, uno dei cibi più rappresentativi del territorio di Benevento. Questa gustosa ricetta, nel tempo, è stata poi associata al Natale  con l’avvento del Cristianesimo, perché nei suoi ingredienti c’è il miele che non poteva mantenere la sua consistenza nei mesi caldi dell’anno. Una via di mezzo tra il torrone classico ed il croccante di mandorle molto gustosa da provare nel

LA CASSATINA DI SAN MARCO DEI CAVOTI

Una bontà del territorio, diversa anni luce dalle tradizionali cassate siciliane o napoletane e, per questo, degna di attenzione. La cassatina che si produce a San Marco dei Cavoti è composta da pasta di mandorle, ricotta rigorosamente locale, pezzetti di cioccolata, la caratteristica glassa di zucchero verde-pastello, più un tocco “segreto” che i maestri pasticcieri (Premiata Fabbrica Innocenzo Borrillo) che l’hanno inventata, custodiscono gelosamente.

IL FUNGO VIRNO CERRETESE

Un fungo di prato primaverile, e non invernale di bosco. Già questo particolare basterebbe a destare curiosità sul “virno”, conosciuto anche come “fungo di San Giorgio” perché legato alla ricorrenza del 23 aprile, quando questa specialità raggiunge il suo massimo splendore. La leggenda vuole che il nome di questo fungo sia legato alle Janare che, durante le loro scorribande notturne, si lasciavano alle spalle la scia delle loro scope (“la vernera”), che cadeva nei prati.  Tipico della zona del Titerno ed in particolare nel territorio di Cerreto Sannita, il “virno” è un fungo delicato, difficile da cucinare ma molto duttile. Il suo sapore viene esaltato in una specialità pasquale: l’agnello, cacio, uova e virni. Ottimo anche se usato sui piatti tipici a mò di tartufo, oppure grattugiato sulla pasta. Perfetto anche nei dolci: l’antica trattoria Masella lo abbina crudo e bagnato con cioccolato fondente.  Essendo un fungo primaverile è molto usato anche per piatti estivi. Per gli amanti della “caprese”, ecco la variante perfetta: gustate una “Matese”, piatto composto da virno e mozzarella di bufala, oppure gustatelo in abbinamento con  i fagiolini verdi locali “cogli, cogli”, il pomodorino ed il caciocavallo

LA RUZZOLA DEL FORMAGGIO DI PONTELANDOLFO

“Facciamo un gioco? Lanciamo il formaggio! Chi riesce ad ultimare il percorso con meno lanci, vince!”. Non è una barzelletta ma è quello che realmente accade, ogni febbraio, a Pontelandolfo dove gli abitanti si riuniscono per un’insolita gara dove il formaggio è unico vero protagonista. Le regole sono molto semplici: occorre far ruzzolare a “pezz r’furmagg” (il pezzo di formaggio) che è di varia pezzatura, lungo un percorso prestabilito del centro storico, tra piazza Roma e la chiesa di San Rocco. Si tratta di una “gara” che ha origini antichissime ed è legata alla leggenda di un ricco Barone locale ed un suo aiutante che si sfidarono, quasi per caso, la notte di Carnevale. Da quella notte la gara della ruzzola del formaggio di Pontelandolfo non è mai terminata….

Contenuti: Gaetano Vessichelli

Foto: Gaetano Vessichelli e Fabrizio De Cunto